In un contesto dove la natura è rimasta pressoché incontaminata, Masseria Cuccia possiede pascoli da potere utilizzare durante la stagione invernale. Una zona ricca di erbe spontanee ma anche di storia. È qui che si hanno rinvenimenti di insediamenti preistorici di popolazioni sicane e qui ricade il sito archeologico di Monte Riparato, risalente all’età ellenistico-romana, che sopravvisse fino alla prima età imperiale.
Ad ulteriore prova della grande importanza riservata in passato al luogo si hanno anche numerose testimonianze risalenti al lungo periodo medioevale, per poi giungere agli ultimi 2 secoli di utilizzo degli agricoltori e allevatori del nostro territorio. Basta dare un’occhiata al versante di Pizzo Sant’Angelo per accorgersi della presenza di vecchie Masserie e di uno splendido abbeveratoio che con il suo splendido specchio d’acqua continua da decenni nella sua funzione di dissetare gli animali.
Passeggiando per la zona capita di imbattersi in greggi di pecore e nella transumanza di una mandria di vacche di razza Cinisara, specie tradizionale per eccellenza di razza autoctona lungo la fascia costiera del palermitano, nota per la capacità di avere una buona produzione di latte con poche risorse disponibili. ”A cinisara licca a petra e fa u latte” dicevano i vecchi allevatori, latte da cui deriva il famoso caciocavallo palermitano. Come ci ricordava l’amico Federico Bruno, la vacca cinisara è uno dei migliori bovini per piccoli allevamenti, agriturismi, fattorie didattiche, per poter promuovere sapori, colori, odori autentici della nostra amata Sicilia.
Presto anche i cavalli di Masseria Cuccia godranno di questi pascoli e di questa salubre natura, come facciamo anche noi ogni volta che torniamo in questo angolo di “pace naturale”.
Per anni gli agricoltori hanno protetto e gestito il territorio con pratiche sostenibili di sfruttamento delle risorse. Tutto seguiva un ciclo senza sprechi. Allevare significava far crescere animali ben nutriti che compivano l’intero ciclo vitale in azienda. Ogni risorsa era spesa bene e quando necessario riutilizzata.
L’agricoltura ha sempre rappresentato la fonte della vita e del cibo, ma negli ultimi decenni l’uomo ha cambiato le regole. Oggi l’allevamento viene condotto senza un legame con la terra e con l’ambiente circostante in enormi capannoni di cemento che sembrano grandi fabbriche. Il mangime percorre migliaia di chilometri, mentre gli animali stanno fermi sul posto senza muoversi. Gli ortaggi e la frutta sono coltivati in luoghi dove tutte le variabili risultano controllate. Sono bellissimi da vedere, non hanno più bisogno di seguire le stagioni. Peccato che hanno perso il sapore, la sostanza e spesso anche il valore nutritivo…
Da un lato le regole del mercato impongono superfici di coltivazione sempre maggiori, mentre il numero delle aziende diminuisce. Gli agricoltori che non tengono i ritmi sono costretti a lasciare marcire il frutto del proprio lavoro sui campi perché spesso i costi di produzione dell’annata non verranno coperti dai ricavi.
Accade che in un mondo in cui le risorse sono limitate, in cui la domanda e i consumi alimentari sono eccessivi, ogni nazione, invece di rispondere alla domanda locale, risponde a quella di un mercato che ha una dimensione globale. Quindi gli agricoltori invece di coltivare prodotti che potrebbero rivendere al giusto valore con filiere corte direttamente nel proprio territorio, si specializzano e trasformano i loro campi in distese uniformi per adeguarsi al mercato globale.
Eccolo il sistema agro-industrialeche detta le sue regole. O sei dentro o sei fuori. Le regole sono chiare, ormai le conosciamo tutti: il cibo fuori stagione arriva nei nostri piatti dall’altra parte del globo, i semi sono brevettati, gli allevamenti sono diventati delle fabbriche, le coltivazioni di biomasse sono usate per le energie rinnovabili… Tutti fenomeni figli di un epoca in cui le premesse della produzione sono cambiate.
Una delle ferite più gravi è la perdita di biodiversità a causa della necessità di coltivare quasi esclusivamente poche varietà ibride. Si parla dell’abbandono di circa il 90% delle varietà coltivate un tempo. La natura ci ha sempre insegnato che è la diversità a premiare perché è colei che trova rimedio all’imprevisto, mentre con l’omologazione e la poca varietà genetica si riduce la capacità di adattamento, oltre che alla possibilità di potere usufruire di una dieta varia e di qualità.
Perché alla fine, particolare che spesso si dimentica, questi prodotti agricoli saremo noi a mangiarli!
In una zona a tradizione cerealicola come quella in cui operiamo ci sono ormai troppi agricoltori disposti a scommettere su una sola varietà di frumento. Spesso li sentiamo dire di avere ” l’aratro sempre in movimento”, o la “seminatrice sempre in azione”! Lo dicono sorridendo, ma con il rammarico di non poter competere con Paesi in cui le estensioni dei terreni sono molto maggiori rispetto a quelle medie delle aziende italiane. È una continua battaglia, combattuta con strategie ormai vecchie. Una volta entrati nel vortice del produttivismo e della destinazione alla grande distribuzione considerata una “sicurezza” è difficile rendersi conto che in realtà si tratta di una falsa speranza. Infatti l’instabilità dei mercati rende i contratti con la Grande Distribuzione sempre più esigui, facendo sì che la speranza sia sempre quella di “produrre di più la prossima annata”!
L’illusione sembrerebbe finita considerando che le varietà ibride sono ormai giunte a dare il massimo che si può chiedere ad una semplice pianta, ma adesso le speranze si ripongono sugli OGM, che rappresenterebbero la seconda Rivoluzione Verde. Gli agricoltori, accecati dalla “quantità della prossima annata”, vedono negli OGM la nuova Eldorado verde!! Senza considerare le conseguenze ancora sconosciute di natura ambientale, biologica e sociale…
L’agricoltura, per come l’abbiamo reinventata e sviluppata, è diventata un problema molto serio. L’azienda agricola non è più un’unità produttiva, ma è stata smantellata e destrutturata in tanti pezzi da specializzare. È stata sganciata dal sistema locale di produzione. Cosa è diventato l’agricoltore oggi? Cosa governa? L’azienda agricola moderna non possiede più tutti i fattori produttivi, molte non possiedono più neanche le macchine agricole e si rivolgono al contoterzismo. Paradossalmente sembra che nell’azienda agricola non c’è più bisogno dell’agricoltore! Il fattore umano è diventato superfluo se quasi tutti i fattori della produzione sono ormai esterni all’azienda, se il modo di produrre non viene più deciso dall’azienda stessa ma dalla (il-) logica del sistema.
NON ABBIAMO BISOGNO DI AUMENTARE LA PRODUZIONE!
Oggi gli agricoltori sono diventati degli operai di una catena che fa da supervisore verso procedimenti produttivi standardizzati, usa varietà standard, gli si dice cosa fare e quando fare, dove vendere, quando vendere e a quanto vendere!! È come se l’agricoltore fosse parte di un sistema più grande che non prevede la sua esistenza come parte attiva di un processo di miglioramento, creazione, produzione.
Per uscire da questo vortice di illogicità noi decidiamo di tornare ad essere agricoltori e allevatori figli legittimi della tradizione contadina del nostro territorio. Per vincere questa battaglia decidiamo di ricominciare a produrre prodotti tipici, da rivendere con un valore aggiunto maggiore.
Ebbene si, ci siamo disintossicati le idee! Crediamo che il cibo sia il principale fattore di definizione dell’identità umana, poiché ciò che mangiamo è sempre un prodotto culturale. Il cibo è la risultante di una serie di processi culturali che trasformano la materia prima a prodotto della cultura di un territorio. Più che aumentare la produzione, dobbiamo migliorarla e pulirla. Non si può chiedere ogni anno sempre di più ad un terreno, ad una vacca da latte o pretendere che un pollo cresca in metà tempo rispetto al suo bioritmo naturale.
Quindi decidiamo di orientarci su varietà e razze autoctone, rifiutiamo la monocoltura e ci rivolgiamo alla produzione di un prodotto tipico, sano e di qualità.